AVELTAR o se preferite AVELSTELLAR

(Trattandosi di opera di pura fantasia, qualunque riferimento ad eventi realmente accaduti o futuri è del tutto casuale, così come immaginarie e irrealistiche sono tutte le affermazioni qui contenute. Questa inclusa)

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 Partiti ormai decenni fa dalla Terra, solcavano da anni i neri ed immensi spazi siderali. Avevano varcato ad una ad una immersi per ibernazione in un profondo sonno artificiale inconsapevole – il solo espediente tecnologico che potesse rendere loro tollerabili, senza far scivolare la mente nella follia, mete e soglie e distanze altrimenti impossibili da concepire e comprendere per la povera ragione umana – Andromeda, Betelgeuse, Proxima Centauri, Cernobus, Xijaar… sino al paradosso dell’assurdo spettacolo che, contro ogni legge della fisica, dell’astronomia e della logica, si parava ora innanzi ai loro occhi, da poche ore elettronicamente dischiusi dal timer di bordo.

Inquadrate negli oblò di prua dello shuttle, le verdi guglie di Irpandora si stagliavano nitide nell’atmosfera rarefatta e pungente, mentre il veicolo si apprestava al suo pericoloso atterraggio, reso ancor più problematico e audace dalla fluttuazione, sulla distesa di nebbie bagnate, di vere e proprie isole aeree, folte di densa vegetazione aliena. Un mondo che si sarebbe detto mai aver conosciuto manufatto né opera alcuna, un pianeta dove l’unico equilibrio ecologico possibile non poteva che consistere nel passivo abitare quella inquietante flora viva, animata e cosciente.

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 Eppure, occhieggianti dalle coltri fronzute, emergevano qua e là, a poca distanza l’una dall’altra, antiche vestigia di civiltà dimenticate, templi eretti in epoche lontanissime da qualche industriosa razza umanoide, alla cui remota estinzione era succeduto il fatale, ineluttabile nuovo prevalere della natura. Si percepivano bene, dall’alto, a poca distanza le une delle altre, sagome incerte e minacciate. Lì una tozza torre quadrangolare con grandi aperture su ogni lato, che forse era stata un tempo la sede di enormi mercati generali; qui una pittoresca facciata barocca (chissà, un ufficio amministrativo o doganale dell’epoca) miracolosamente ancora in piedi, stretta com’era in una possente gabbia di metallo corroso che, probabile estremo tentativo di preservarne o immortalarne l’esistenza e la memoria, la avvolgeva soffocandola in un abbraccio mortale al quale liane, radici prensili e tentacoli di mangrovia irpandoriana prestavano ulteriore forza, serrando il tutto in una a morsa vegetale tetra e indissolubile come una maledizione; qui ancora un mastodontico basso complesso a due piani totalmente degradato e in rovina, le cui grigie mura, probabilmente quelle di una stazione ferroviaria o di autobus, reggevano ancora beffarde il brutale assalto coordinato della foresta. E poi: i neri imbocchi di un tunnel senza uscita, oscuri ingressi a grotte sotterranee rifugio di orsidi, paralupi e metacinghiali, e il tracciato di un grande viale lastricato la cui pavimentazione sopravviveva ancora qua e là, punteggiata dai resti di quelli che si sarebbero detti artificiali funghi metallici, ed altre geometrie non interpretabili, parto di menti dai meccanismi talmente distanti dai nostri al punto da risultarci del tutto fuor di senso.

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 Era la perduta città di Aveltar, dalle topografie in parte già note dalle ricostruzioni dei satelliti ipersonici, ma la cui visione diretta superava ogni possibile immaginazione. Di essa, si supponeva che i suoi autolesionisti abitanti avessero amato talmente il verde e gli alberi da lasciarsene letteralmente inghiottire, sviluppando poco a poco simbiosi inquietanti all’interno delle quali quegli indefessi costruttori regredirono poco a poco ad uno stato parassitario della loro stessa flora urbana senziente, che ne assunse progressivamente il controllo, sino a mutarli nel pietoso stato di servi adoranti della onnipresente vegetazione, parte inscindibile di un tutto vegetale/animale inclassificabile per la biologia, zoologia e botanica tradizionale, proprio perché da esse tutte insieme indissolubilmente connotato. Le stesse indagini satellitari preliminari avevano rilevato che, così come gli umanoidi-pianta si erano rifugiati sulle cime più alte, sfidando il volo rapace dei temibili uccelli trettré, di contro, nella variegata mappa sotterranea del fondo dei tunnel cittadini si muovevano, contendendone il predominio alle fiere, scaltri, intelligenti e possenti umanoidi-scimmia, padroni del terreno come i trettré lo erano dell’aria, occupati in primitive attività commerciali di baratto primordiale, per le quali avevano costruito rozze bancarelle di rami e di foglie perfettamente adatte alla bisogna. Traffici particolarmente fiorenti nella congiuntura astrale annuale dei tre soli di Aveltar: Ferro, Agosto e Assunta, che, più o meno nell’equivalente di ogni dodici mesi terrestri, si addensavano appunto nel periodo più caldo dell’anno irpandoriano, senza disdegnare né trascurare un piccolo remake, questa volta in congiunzione opposta, nel corso dell’inverno del pianeta, animato stavolta, più o meno con gli stessi rituali e funzioni, da rozze capanne simili a baite. Erano le rare occasioni in cui gli umanoidi-pianta, per il resto paghi del loro osceno saprofitismo clorofillare, scendevano dalle chiome per provvedersi del poco necessario al loro scarno regime alimentare: per lo più nocelle, samentine e copeti, con qualche rara aggiunta di caramelle gommose colorate.

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 Intanto qualcuno tra i più eminenti studiosi di archeologia galattica continuava a sostenere la discutibile tesi che Irpandora non fosse affatto un pianeta alieno, quanto piuttosto invece la triste materializzazione futura del loro, della loro povera terra a questo ridotta dalle estreme conseguenze di ere di politiche urbanistiche dissolute e perverse… che, in altre parole, per l’ennesimo dei paradossi della navigazione interstellare sperimentale intrapresa, avessero viaggiato nel tempo, invece che nello spazio. L’idea appariva in verità così assurda da non poter trovare conferma, se non altro per la palese incongruità della premessa: quale specie evoluta e civilizzata avrebbe mai fatto a sé tutto questo? (continua)

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3 Risposte a “AVELTAR o se preferite AVELSTELLAR”

  1. …e chissà intanto di questo passo che fine farà, lo sfortunato popolo di Aveltar!

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